Il formato dei file immagine
Sarà successo di sicuro anche a voi: aprite la posta elettronica e trovate un messaggio di una vostra bellissima amica in ferie: “Caro Gianni, qui a Rio il tempo è splendido ti invio qualche foto, così potrai ammirare il mio nuovo bikini!”.
Voi vi precipitate a fare clic sull’allegato, ma… niente da fare, non si apre.
Provate a trascinare l’icona su Paint, ancora niente. Tentate con PhotoShop: nessun risultato.
Clic sul tasto destro per vedere le proprietà… sembra tutto a posto, dimensioni, data di creazione, ma caspita, che razza di file è “spiaggia.ppt”?
Bene, siete incappati in quello che viene definito “formato proprietario”, ovvero un formato di file utilizzato in modo specifico da un solo programma o comunque leggibile solo da pochi software.
Per la cronaca, PPT è il formato grafico usato da PowerPoint, il programma per la preparazione di presentazioni di Microsoft Office: un programma diffusissimo negli uffici, ma che forse non avete sul PC di casa. Immaginiamo la vostra obiezione:
Ma un’immagine è un’immagine, perché un programma può aprirla e un altro no?
E poi, cos’è un “formato”?
Come è noto a chi si occupa di grafica su computer, un’immagine digitale è formata da una matrice di punti, una specie di reticolato in cui ogni singolo punto è contraddistinto da un valore numerico che esprime il suo colore.
Quando l’immagine presente su un dispositivo (per esempio una macchina fotografica digitale) deve essere registrata su disco, sotto forma di file, i dati della matrice di punti devono essere trasformati in un flusso sequenziale. Per fare ciò ci sono moltissime soluzioni possibili: registrare i punti in ordine per riga, o per colonna, o a blocchi di dimensioni arbitrarie.
E ancora, è possibile introdurre artifici come sistemi di compressione, dati supplementari riguardanti la foto (per esempio l’ora dello scatto, o il tipo di macchina usata) e potremmo continuare a lungo.
In pratica, la stessa immagine può produrre decine di file diversi fra loro, a seconda del metodo utilizzato per registrarne i punti.
Se definiamo una serie di regole che elenchino quali dati registrare in un file e in che ordine, otteniamo un “formato” di registrazione. Nella lunga storia dell’informatica di formati per la grafica ne sono nati parecchi: uno dei più completi programmi per la lettura, decodifica e traduzione di immagini (Graphic Converter di Lemkesoft, disponibile solo per Mac) è in grado di aprire quasi 200 formati diversi.
Ma sono davvero necessari tanti formati?
Ovviamente no. Certo, esistono delle applicazioni particolari che hanno bisogno di formati proprietari per memorizzare caratteristiche specifiche, soprattutto per immagini in via di lavorazione, ma nella maggior parte dei casi, e in generale per tutte le immagini già elaborate e pronte da utilizzare, è sicuramente meglio utilizzare uno dei formati più noti, in modo da avere la massima compatibilità con il “resto del mondo”.
I formati universali
Fra le decine di formati in uso per la grafica “raster” (vedi box in basso), ce ne sono alcuni che si sono affermati in modo trasversale, nel senso che non sono legati a un singolo programma, ma viceversa possono essere creati e letti dalla maggior parte delle utilità grafiche in commercio e su tutte le più diffuse piattaforme di calcolo, da Windows a Mac, fino alle stazioni di lavoro Unix.
Naturalmente, anche fra questi formati ne esistono di più o meno sofisticati, e quindi il loro utilizzo non è del tutto intercambiabile. Alcuni per esempio hanno limitazioni nel numero di colori registrabili; altri non gestiscono i metadati (informazioni supplementari) che descrivono lo spazio colore utilizzato dall’immagine.
Alcuni consentono di memorizzare immagini multilivello, altri no; alcuni consentono solo la compressione non distruttiva, altri anche quella distruttiva, e così via.
La scelta del formato da usare dunque va fatta oculatamente, secondo le nostre esigenze.
Uno dei formati da più tempo sulla breccia è il GIF (Graphic Interchange Format).
Esso fu sviluppato nel 1987 da Compuserve, uno dei maggiori fornitori di servizi di connessione, per permettere di scambiare immagini fra i suoi abbonati, che spesso erano collegati con modem piuttosto lenti (a quei tempi, non si parlava di banda larga: le connessioni avvenivano a 2400 bps o, quando andava bene, a 9600).
Il formato GIF è molto limitato, in quanto può registrare solo a 8 bit per pixel, in pratica 256 colori, anche se permette di utilizzare una “palette”, ovvero di scegliere i 256 colori da una tavolozza molto più grande.
In compenso, un file GIF può contenere più immagini visualizzabili in sequenza e quindi può essere usato per le animazioni.
Ancora oggi il formato GIF è utilizzato per icone, per “thumbnail” ovvero miniature di foto su cui cliccare per visualizzare la foto in grandezza reale, e per piccole animazioni decorative nelle pagine Web.
Sfortunatamente, chi creò le specifiche di GIF decise di usare un algoritmo di compressione chiamato LZW che in seguito si scoprì essere stato brevettato da Unisys, con il risultato che questa azienda cominciò a chiedere i diritti a tutti coloro che realizzavano programmi capaci di leggere e scrivere i GIF, oltre che agli operatori che usavano file GIF nei loro siti (il brevetto è scaduto negli USA nel 2003 e in Europa nel 2004).
Questo portò nel 1996 allo sviluppo di uno standard alternativo chiamato PNG (Portable Network Graphics), completamente libero da problemi di brevetti.
PNG è in grado di memorizzare immagini con profondità di colore da 1 a 16 bit per canale colore (fino a 48 bit per immagini RGB) e può memorizzare anche un canale “Alpha”, impiegato per gestire le trasparenze.
Il fatto che PNG sia stato sviluppato con un occhio al Web traspare anche dal fatto che può incorporare vari metadati: in particolare, informazioni sul cromatismo e sulla taratura della Gamma del computer dove l’immagine è stata creata, in modo che i colori non cambino quando l’immagine viene visualizzata su un computer diverso; ed elementi di testo per titolo e soggetto, per consentire ai motori di ricerca di individuare l’immagine per mezzo di normali ricerche testuali.
Purtroppo, le specifiche PNG non hanno goduto di grande supporto, in particolare dal browser più diffuso (Explorer) e questo ha limitato non poco la diffusione del formato che avrebbe meritato più fortuna.
Al momento quindi PNG è teoricamente una buona scelta tecnica per mettere le immagini in Rete, ma il supporto reale al formato è ancora basso e tale rimarrà finché non scenderà significativamente il numero di utenti di Explorer, un programma che ha provocato alla diffusione di Internet più danni che benefici.
Servizio completo Molto più popolare si è rivelato il formato TIFF (Tagged Image File Format), inventato da Aldus e Microsoft per utilizzi nel settore dell’impaginazione e della grafica professionale.
Aldus è poi stata acquisita da Adobe per cui oggi TIFF è un formato di proprietà del noto produttore di PhotoShop.
Si tratta di un formato estremamente versatile, capace di memorizzare file molto grandi (in teoria fino a 4 Gb di dati immagine compressi) e di utilizzare vari spazi colore e diversi tipi di compressione, sia di tipo non distruttivo che di tipo “lossy” (“distruttivo”) che però non viene quasi mai usata con questo formato.
Se poi aggiungiamo una profondità di colore massima di 64 bit per pixel (16 per colore, anche in quadricromia) e la capacità di lavorare sulle piattaforme più diverse, otteniamo un formato quasi ideale.
Il problema più grave del TIFF è proprio la sua versatilità: essendo un formato “tagged” (a cui cioè si possono aggiungere etichette digitali con altre informazioni), quindi facilmente estendibile, se ne sono create una miriade di varianti, ma pochi programmi possono leggerle correttamente tutte.
Il caso più tipico è l’impossibilità di leggere su un PC un’immagine creata su una macchina Unix, perché il programma di lettura sul PC non sa che i sistemi RISC registrano i numeri di 16 bit in due blocchi invertiti rispetto a come fanno i sistemi Intel. Ovviamente il sistema Unix leggerà correttamente le immagini prodotte su PC, perché l’informazione sull’ordine dei dati è registrata nel file.
A parte questi piccoli inconvenienti, TIFF rimane uno dei formati da preferire quando si devono registrare immagini che vanno utilizzate alla massima qualità possibile (naturalmente bisogna usare solo compressioni non distruttive, per esempio LZW o BitPack) e quando bisogna essere sicuri che le informazioni di colore vengano trasmesse correttamente fra sistemi diversi (cosa possibile grazie all’inclusione nel file del “profilo colore” dell’immagine).
Quando più che la qualità conta la compressione, viene utilizzato spesso il formato JPEG (Joint PhotoGraphic Expert Group). Questo formato è stato elaborato da un gruppo di aziende attive nel settore della fotografia ed è stato ottimizzato per registrare le immagini con buona qualità, ma soprattutto con fattori di compressione anche elevati.
Per raggiungere questi risultati, si è fatto ricorso a un algoritmo di tipo “lossy”: in pratica, il programma scompone l’immagine in blocchi di 8 x 8 punti e poi sottopone ogni blocco ad alcune operazioni matematiche che consentono di eliminare i dettagli meno visibili, abbassandone drasticamente l’ingombro.
Ridurre le dimensioni delle immagini
Naturalmente è possibile variare dal programma la percentuale di compressione, ottenendo quindi in base alla proprie necessità foto più compresse (ma meno dettagliate) o foto più ingombranti (ma con qualità vicina all’originale). È importante notare che la compressione operata su un’immagine JPEG non è reversibile: una volta che l’algoritmo ha “cancellato” un particolare, questo non è più recuperabile, neanche sottoponendo la foto all’operazione inversa.
Inoltre, utilizzando fattori di compressione elevati, JPEG soffre della comparsa di “artefatti”: in pratica, alcune zone dell’immagine evidenziano dei difetti tipici del tipo di compressione a cui sono state sottoposte. Per esempio, a elevati fattori di compressione iniziano ad apparire in modo netto i confini dei gruppi di pixel su cui l’algoritmo ha lavorato, danno all’immagine un aspetto “a blocchi”. Recentemente lo standard JPEG si è arricchito di un’ulteriore variante che utilizza un sistema di compressione di tipo frattale grazie al quale si può superare il problema dell’evidenziazione dei blocchi di pixel.
Ecco di cosa si tratta: l’algoritmo cerca di codificare l’immagine sotto forma di formule matematiche che consentono elevata compressione con una perdita di dettaglio inferiore a quella del metodo tradizionale. Questa variante richiede però molta più potenza di calcolo e non è ancora molto diffusa. Il formato che non c’è JPEG è probabilmente il formato più utilizzato sulle fotocamere digitali, grazie alle buone prestazioni del sistema di compressione.
Tuttavia, il fatto che esso introduca alterazioni non recuperabili nell’immagine a causa del procedimento di compressione non ne fa una scelta ideale, ma solo di compromesso. Se non avete problemi di spazio sulla scheda di memoria, e se la vostra fotocamera ve lo permette, usate piuttosto il formato TIFF, se non addirittura il formato RAW.
Quest’ultimo non è in realtà un formato vero e proprio, nel senso che differisce da produttore a produttore: si tratta in pratica della semplice trasposizione di tutti i dati “grezzi” dell’immagine raccolta dal CCD verso la scheda di memoria, senza elaborazioni di alcun tipo.
I dati RAW in pratica sono la copia esatta di ciò che il sensore della fotocamera ha visto e portandoli sul PC è possibile elaborare queste informazioni in modo molto più sofisticato di quanto possa farlo il piccolo processore della fotocamera. Naturalmente per fare questo dovete disporre di un programma capace di usare questi dati. Un esempio è Adobe Photo- Shop, che grazie ad appositi moduli aggiuntivi (plug-in) può importare ed elaborare i file RAW prodotti dalle più diffuse fotocamere. E visto che abbiamo citato PhotoShop, dedichiamo un po’ di spazio anche al suo formato proprietario: PSD.
Pur essendo un formato nato esclusivamente per il famoso programma di fotoritocco di Adobe, PSD comincia ad apparire anche in altri programmi, che lo possono importare per sottoporre le immagini ad altre elaborazioni o semplicemente per inserirle in documenti più complessi, come succede per i programmi di impaginazione.
Il formato di PhotoShop è estremamente versatile, dato che può memorizzare non solo immagini composte da più livelli (cioè da più strati sovrapposti; pensate a un’immagine dipinta su un certo numero di fogli trasparenti messi uno sull’altro), ma registra anche istruzioni di variazione di colore, tracciati di ritaglio, selezioni, profili colorimetrici, e varie altre informazioni. Si tratta dunque di un ottimo formato per registrare un’immagine su cui si prevede di dover ancora lavorare per arrivare al risultato finale, o le immagini destinate a essere incluse in impaginati professionali.
All’inizio dell’articolo abbiamo detto che ci sono centinaia di formati.
Ma con i pochi che abbiamo citato si può già soddisfare la maggior parte delle esigenze di chi fa fotografia digitale.
Quindi, se non ci sono motivi assolutamente inderogabili, consigliamo caldamente a tutti di utilizzare solo i formati più universali, come TIFF, JPEG e PNG, evitando inoltre (per quanto possibile) di sfruttarne le caratteristiche più esotiche, che potrebbero creare problemi di compatibilità.
Come Ridimensionare foto e immagini
Grafica vettoriale e raster
La grafica bidimensionale si può suddividere a grandi linee in due branche: quella delle immagini vettoriali e quella delle immagini “raster”.
I formati vettoriali
sono quelli che memorizzano le immagini sotto forma di linee, forme geometriche e istruzioni di disegno. Sono usati soprattutto per le clip art (le librerie di disegnini) e per le immagini CAD (programmi per progetti architettonici, meccanici eccetera) e hanno il grande vantaggio di consentire il ridimensionamento dell’immagine senza perdita di qualità.
Tuttavia questi formati non sono utilizzabili per riprodurre fotografie, e quindi non li considereremo.
I formati raster
sono invece quelli che consentono di memorizzare immagini composte da matrici di pixel e sono quindi utilizzabili per le fotografie. Il nome “raster” (che corrisponde più o meno al nostro “scansione”) deriva proprio dal fatto che in questi formati l’immagine è memorizzata una linea per volta come può fare, per esempio, uno scanner o il fascio elettronico di una telecamera. I formati raster si differenziano fra loro per caratteristiche come la profondità di colore (ovvero il numero di bit assegnato a ogni singolo pixel, che determina il numero di colori che il punto può assumere), la presenza e il tipo di compressione, la presenza di informazioni supplementari (metadati), e altre particolarità.
Immagine vettoriale
Questa immagine tratta dalla libreria di clip art di Microsoft Word è registrata in formato vettoriale.
Ingrandimento vettoriale L’immagine vettoriale può essere ingradita senza difficoltà, perché il file ha
memorizzate le istruzioni di tracciamento, non i pixel veri e propri
Ingrandimento raster Se l’immagine fosse memorizzata in formato raster, e provassimo a ingrandirla, otterremmo un effetto di questo tipo…
Molti formati grafici evoluti consentono di memorizzare anche i cosiddetti “Metadati”; informazioni riguardanti l’immagine: come è stata catturata, come è stata codificata eccetera.
Ecco un esempio di metadati EXIF associati a un’immagine dalla fotocamera digitale che l’ha scattata.
Ci sono un paio di formati piuttosto diffusi nel mondo PC, che tuttavia rimangono in esso confinati e che per questo non sono scelte ottimali quando si lavora su immagini che devono in qualche modo lasciare l’universo Windows, vuoi per essere stampate da minilab professionali, vuoi per essere impaginate su macchine Unix.
Il primo è il formato BMP, il cui nome è l’abbreviazione di “bitmap” o mappa di bit. Si tratta del formato nativo con cui Windows memorizza le immagini, e consente di registrare fino a 24 bit di colore per ogni pixel, ovvero 8 x 3 bit in formato RGB.
Utilizza una compressione non distruttiva, che non permette grandi riduzioni di ingombro nelle foto ma si rivela ottimale per registrare in modo compatto videate e simili. Il suo utilizzo ormai sarebbe piuttosto limitato, se molte utilità di Windows non lo usassero automaticamente come formato di salvataggio in assenza di diverse indicazioni dell’utilizzatore.
Il secondo formato tipico del PC è siglato PCX ed è stato creato da Z-Soft per il suo PaintBrush, uno dei primi programmi di disegno “a mano libera” per PC, diffuso già ai tempi dell’MSDOS.
Può memorizzare immagini fino a 64.000 x 64.000 pixel con profondità di colore da 1 a 24 bit, ma l’utilizzo di una compressione poco efficiente lo ha pian piano messo in secondo piano.
Oggi è quasi in disuso al di fuori del mondo Windows, ma è stato a lungo uno dei formati più supportati.
Glossario
Gamma: Misura che indica la correzione matematica da apportare ai valori di colore di una foto per rappresentarla realisticamente su un determinato apparecchio. Viene espressa da un valore numerico generalmente compreso fra 1 e 3.
Lossy: Ovvero “con perdita”, si dice di tutti i metodi di compressione che non permettono di recuperare al 100% l’informazione
originale. Questi metodi si basano generalmente su elaborazioni matematiche capaci di filtrare le alte frequenze da un gruppo di dati.
Quadricromia: Sistema di rappresentazione di immagini a colori che utilizza quattro colori fondamentali (ciano, magenta, giallo e nero) per ottenere tramite retini tutte le altre tonalità.
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